L’Impresa dei Mille. L’intrigo che generò la questione meridionale


L’Impresa dei Mille, il mitico atto di fondazione dell’Unità d’Italia, descritto dalla retorica unitaria come la leggendaria spedizione con la quale l’eroe dei due mondi, Giuseppe Garibaldi, “fece l’Italia”, sottraendo il Meridione dal vecchiume borbonico: una vergognosa menzogna, credibile solo per ingenuità o, peggio, per una cieca partigianeria risorgimentale, mossa da un odio viscerale per il mondo che i Borboni rappresentavano. Se abbiamo coraggio di guardare in faccia la verità, anche a costo di perdere delle certezze sulla legittimità della fondazione dello Stato di cui siamo cittadini, scopriremo che,  nel 1860, il Regno delle Due Sicilie era la terza potenza economica a livello europeo, mentre il Piemonte “liberatore” nulla più di una caserma a cielo aperto, coperta di debiti fino al collo (alla faccia della famosa questione meridionale, evidentemente, frutto della politica del Regno d’Italia e non problema preesistente).
La spedizione dei Mille che, oggi, verrebbe considerata quale aggressione ad uno stato sovrano nonché un crimine contro il principio di autodeterminazione dei popoli, fu l’attuazione di un progetto internazionale ordito dalla massoneria e dal governo inglesi, d’accordo con l’alleato piemontese, certamente non finalizzato all’unificazione di un’Italia di cui i Savoia non conoscevano nemmeno la lingua  - idioma ufficiale del Regno di Sardegna era il francese -. L’obiettivo principale era, per il governo inglese, fortemente colluso con la massoneria protestante, distruggere un regno cattolico nonchè economicamente fiorente e, dunque, rivale nei commerci mediterranei, per il Regno Sabaudo, si trattava di rimpinguare le esangui casse con l’incameramento dei beni ecclesiastici situati nel Mezzogiorno e dell’oro borbonico.
Il saggio di Francesco Saverio Nitti, “Scienze delle Finanze” (1903), riporta che, al momento dell’unificazione, il Regno delle Due Sicilie possedeva 443 milioni di monete, una quantità doppia rispetto al restante della penisola. Alla Banca di Parigi la Rendita dello stato borbonico era quotata al 120%, la percentuale più alta d’Europa, e nella Conferenza Internazionale del 1856 il Regno delle Due Sicilie ricevette il premio come terzo paese del mondo, dopo Regno Unito e Francia, per sviluppo industriale. La contemporanea crescita demografica nello stato napoletano testimonia il benessere di un paese dotato di ferrovie, gas e telegrafo e di un apparato industriale da primato europeo nei settori tessile e metalmeccanico (nel quale il numero di addetti era pari a 1.600.000 a dispetto dei 1.100.000 del resto d’Italia). Il fiore all’occhiello del Regno borbonico, però, era la cultura: venne istituita l’istruzione pubblica che, con quella affidata al clero, generò uno slancio intellettuale sull’impulso del quale nacquero il Teatro San Gallo, l’Officina dei Papiri, il Museo Archeologico, il Real Orto Botanico, l’Osservatorio Astronomico, la Biblioteca Nazionale e, soprattutto, l’Osservatorio Sismologico Vesuviano, primo al mondo.
Inaugurazione linea Napoli-Portici, 3/X/1839
Una tale potenza economica, posta in una posizione favorevolissima, costituiva una seria minaccia per la supremazia marittima e commerciale dell’Impero Britannico nel Mediterraneo, vero cuore degli scambi di merci, anche in virtù dell’apertura, in quegli anni, del Canale di Suez. Così la “perfida Albione”, per poter estendere, al pari di Austria e Francia, la propria ingerenza sull’Italia, pensò bene di dare il proprio appoggio al Piemonte, affinchè la sordida manovra avesse le parvenze di una “liberazione” nel nome dell’Italia “calpesta e derisa”. Nonostante questo pretesto, il Regno di Sardegna non azzardò l’aggressione diretta ad uno Stato sovrano, in parte perché sarebbe stata una trasgressione troppo palese di qualsiasi trattato internazionale, in parte perché era una caratteristica propria della politica del secolo XIX quella di operare in modo occulto attraverso intrighi e trattati segreti. Fu così che l’abile Cavour architettò un modo altero di mettere in pratica i disegni di Lord Palmerston, primo ministro britannico, e di Gladstone, il quale aveva diffamato l’immagine del Regno delle Due Sicilie, e ricorse, dunque, a Giuseppe Garibaldi, già condannato a morte in contumacia nel 1834 dal Consiglio Divisionale di Guerra Genovese in quanto nemico della Patria. 
Partenza da Quarto
Il mercenario che passerà alla storia come “eroe dei due mondi”, partì il 5 maggio 1860 da Quarto, Genova, alla testa di 1089 uomini, per lo più criminali comuni provenienti dalla Lombardia, imbarcati sulle due navi “Piemonte” e “Lombardo”, concesse dietro compenso dalla società Rubattino (la versione ufficiale fu quella di un furto). Di questi “mille”, oltre 300, veri repubblicani, scesero a Talamone, Toscana, dopo essere venuti a conoscenza della reale natura di quella spedizione, al soldo della massoneria e della corona sabauda. Lo sbarco, come tutti sanno, avvenne a Marsala l’11 maggio, quello che la maggioranza ignora, però, sono le circostanze sospette di tale episodio: i garibaldini approdarono alle 14, in pieno giorno, mentre il buon senso avrebbe voluto che per via della loro inferiorità numerica avessero cercato di cogliere di sorpresa i Borboni, sbarcando di notte, con il favore delle tenebre.
Sbarco a Marsala
L’arrivo in pieno giorno rivela una sicurezza di fondo, garantita dall’appoggio della marina inglese: Marsala era sede di alcune industrie vinicole britanniche (vi si produceva il liquore omonimo), e le navi inglesi “Argus” e “Intrepid” protessero dalle cannonate borboniche l’approdo dei garibaldini con il pretesto di evitare danneggiamenti alle fabbriche stesse. Alle camicie rosse del mercenario di Caprera si unirono alcuni marinai inglesi (la cui divisa era anch’essa rossa), e, successivamente, a Salemi, alcuni picciotti del signorotto locale, barone Sant’Anna. Si giunse così all’epica battaglia di Calatafimi, quella in cui si vuole che il Generale, ormai auto-dichiaratosi “dittatore delle Due Sicilie in nome di Vittorio Emanuele II, re d’Italia”, abbia pronunciato la famosa frase “Qui si fa l’Italia, o si muore!”. Effettivamente, quel 15 maggio 1860,  i “Mille”, rischiarono di essere spazzata via dall’esercito borbonico, e se non fu così, non lo dovettero alle doti dei loro comandanti (Bixio aveva ordinato la fuga), ma al tradimento del Generale borbonico Landi, corrotto con 14 mila ducati dagli Inglesi. Egli, dopo aver rifiutato il proprio sostegno al generale Sforza, che aveva già decimato l’avanguardia delle camicie rosse, suonò la ritirata, offrendo a Garibaldi la possibilità di colpire l’esercito in fuga e, al contempo, un’insperata vittoria.
Rappresentazione della battaglia di Calatafimi
Verrà condannato dallo stesso Francesco II di Borbone al confino in Ischia, l’anno successivo, dopo essere passato nell’esercito piemontese ed essere andato in pensione, si presenterà al Banco di Napoli per incassare la polizza, ricevuta per mano dello stesso Garibaldi: sarà solo allora che scoprirà che sulla sua copia sono stati aggiunti 3 zeri e, accorgendosi di essere stato ingannato, verrà colto da un ictus mortale. Nell’altra battaglia insulare, quella di Milazzo, gli Inglesi fornirono alle camicie rosse le carabine-revolver americane “Colt” e il fucile rigato inglese “Enfield 53”, garantendogli un equipaggiamento tale da risultare vincitori. Non mancarono altre corruzioni di ufficiali nell’esercito borbonico finalizzata a sapere la dislocazione dell’esercito e le strategie militari, mentre la flotta inglese scortò l’avanzata dei Mille, tanto che il 6 settembre, giorno della partenza di Francesco II da Napoli alla volta di Gaeta, l’Intrepid (lo stesso di Marsala) teneva sotto tiro il Palazzo Reale, da una posizione poco distante dal litorale Santa Lucia. Garibaldi, che quello stesso giorno giunse nella città partenopea con un treno dell’efficiente linea fatta costruire dai Borboni, alla partenza dell’Intrepid, il 18 ottobre, donerà agli Inglesi una parte del suolo pubblico, destinata all’edificazione della cappella anglicana “San Pasquale in Chaia”, mostrando le motivazioni anche religiose dell’odio britannico nei confronti del Regno delle Due Sicilie e il carattere contrattuale del sostegno dato dagli Inglesi alla spedizione dei Mille in nome di un “do ut des”. Il 26 ottobre avvenne a Teano un altro episodio, quello dell’incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II, che mostra nella semplicità di un’unica parola, “Obbedisco!”, la natura, tutta di mercenario, di un uomo che si è voluto raffigurare come eroe e liberatore.
Francesco II di Borbone
Qualche mese più tardi, la roccaforte borbonica di Gaeta, già rifugio per Pio IX durante la drammatica esperienza della Repubblica Romana, dopo 100 giorni di massacri perpetuati dal Comandante piemontese Cialdini cadrà: è il 13 febbraio 1861, la fine del Regno delle Due Sicilie, ma soprattutto la fine, per il Mezzogiorno, della prosperità che i Borboni gli avevano regalato, e l’inizio di una miseria economica che porterà con sé la detestabile ed infamante accusa di essere dei “fannulloni” rivolta dai Settentrionali ai suoi abitanti. Francesco II, accolto prima a Roma, da Pio IX, e, dopo il 1870, costretto ad emigrare all’estero, morirà in grande ristrettezza di mezzi a causa della confisca di tutti i suoi beni da parte dei Savoia-Carignano innanzi alla proposta dei quali di restituire il mal tolto previo riconoscimento del Regno d’Italia, rispose: “l’onore non è in vendita”. Relegare milioni di persone alla povertà e alla discriminazione, e una terra meravigliosa ad un’indegna condizione di abbandono, anche questo il frutto di un’Unità che oggi, di fatto, con il decentramento amministrativo abbiamo rinnegato, riconoscendo l’identità prevalentemente locale propria della nostra storia, e la cui necessità, all’epoca, era avvertita, solo dal Regno Sabaudo ed esclusivamente per i vantaggi economici derivanti da essa piuttosto che per i timidi slanci patriottici che potevano appartenere ad uno stato francofono, in cui la proclamazione dell’Unità, avvenne con la formula, tuttaltro che italiana:  “Victor-Emmanuel II, Roi d’Italie”.